MORO COLLAGE

Il dibattito sta per terminare: stiamo parlando da oltre due ore e ormai si fa tardi, anche se sono ancora tutti lì incollati alle sedie e capisci che resterebbero ancora ad ascoltare. Ma non c’è più tempo per altre domande e così ripongo nella carpetta gli articoli che mi ero portato per trarne spunto. E l’occhio mi cade su quella particolarissima foto degli anni ’60: un bianconero che insieme ha fermato un momento di vita familiare e un simbolo di una politica sicuramente controversa anche allora, ma con uno stile che oggi appare lontanissimo. E’ la foto di un papà che sulla spiaggia di Terracina cammina tenendo per mano una figlia, entrambi con un sorriso pur solo abbozzato. La particolarità è che quell’uomo non è in costume come il bagnante sullo sfondo e come solitamente si è in spiaggia, ma è in giacca e cravatta…

E’ Aldo Moro. Statista, esponente di spicco della Democrazia cristiana che governò l’Italia per mezzo secolo, ebbe ruoli istituzionali importanti: fu ben 5 volte Presidente del Consiglio. E nonostante siamo lì da due ore, nonostante siamo insieme dal pomeriggio con il precedente incontro all’Università, mi sembra ancora impossibile che a pochi metri sia lì quella bambina di allora, Agnese Moro, con al suo fianco Franco Bonisoli e Adriana Faranda: due componenti di primo piano delle Brigate Rosse, cioè proprio il gruppo di terroristi che nel 1978 rapì e poi uccise Aldo Moro.

E’ già in questi due appaiati fotogrammi l’essenza, e anche la forza che sembra sovrumana, di “Vivere e non sopravvivere”: di questo doppio nuovo incontro parmigiano, a un anno di distanza dal precedente, con alcuni protagonisti – in ruoli diversissimi e a volte opposti – dei nostri tragici e terribili anni di piombo. Un’idea di Max Ravanetti che la Cgil ha avuto l’intelligenza (non occorre parlare di coraggio, nella casa che fu anche di Guido Rossa) di adottare e ospitare.

Ma mentre scrivo già capisco che è difficilissimo spiegare, e ancor più sarà difficile capire per chi non c’era, non ha ascoltato, non ha visto. Provo comunque a srotolare appunti ed emozioni: le stesse emozioni che ho visto negli occhi di chi ha seguito i due incontri. E per farlo, provo a partire dal lato più difficile: quello che può indurre più dubbi e più diffidenze.

Faranda e Bonisoli, lo dico per sgombrare subito il campo da ogni equivoco, non sono stati chiamati qui per una “conferenza”: nessuna cattedra, nessun monologo senza contraddittorio come a volte è avvenuto e ha fatto discutere, altrove e per altri ex terroristi con altri percorsi. Ciò che consente questo incontro, e che contemporaneamente gli dà grandissimo valore, è proprio la presenza di un controcanto, di chi degli anni di piombo fu vittima. Ma allo stesso tempo, mancherebbe qualcosa alla rilettura dolorosa ma necessaria di quegli anni, se non ci fosse anche la loro voce. E se non fosse una analisi vera, senza ricerche di oblio o perdono (una parola che giustamente non compare in questo percorso comune) ma anche senza ipocrisie.

Così Adriana parte da sè “sognatrice” e Franco dalla “idea salvifica di cambiare il mondo”, dalla “utopia”. E uso i soli nomi non per confidenza ma perchè tutti i terroristi, prima di diventare “mostri” come ci apparirono, furono semplicemente ragazzi e ragazze, e all’inizio ebbero davvero semplicemente dei sogni. In un contesto che in quegli anni era quello delle bombe fasciste tra la gente, come è giusto ricordare nell’introdurli pur precisando che neppure questa può essere una giustificazione o un’attenuante. Ma non occorre sottolinearlo, perchè loro per primi non fanno sconti a sè stessi e alla decisione della lotta armata come strumento: “Le nostre scelte hanno segnato pesantemente la vita del Paese” (Faranda); “Ho rovinato la mia vita e ho rovinato tutte le famiglie di quei ‘simboli’ che solo dopo ho cominciato a vedere come persone” (Bonisoli).

Sinceri? Sembra davvero di sì. Opportunisti? Oggi sicuramente no, perchè avendo scontato interamente il loro debito con la giustizia il vero opportunismo sarebbe semmai ritirarsi in un più comodo privato e così sottrarsi ai confronti e agli sguardi nostri, che inevitabilmente scrutano e giudicano. Ma invece è importante che loro, proprio loro che fecero quella scelta, siano qui a dire ai giovani di oggi che “la violenza porta solo violenza”. Un messaggio attualissimo e non scontato, a vedere ancora adesso certe tentazioni a destra come a sinistra…

Sono forti già le loro parole, ma come si diceva l’effetto è moltiplicato dalla presenza degli “altri”: le vittime raccontate dai loro familiari. E proprio Agnese Moro ci fa subito capire ciò che da fuori è impossibile immaginare per noi che tutt’al più ricordiamo il 16 marzo o il 9 maggio. No, per i familiari accade che “ogni giorno mio padre è rapito, ogni giorno sono uccise le care persone che lo accompagnavano, ogni giorno è maltrattato da chi poteva aiutarlo…”. E quindi è atroce il destino di chi rimane: “Stare chiusa toglieva qualcosa ai miei figli: li facevo soffrire senza volere”, dice Agnese che ama spesso alleggerire il discorso con ironie e autoironie, ma che sa poi riassumere esperienze tremende  nella rasoiata di una sola frase secca, appunto come questa.

Sembra di non poterne uscire. Mai più. E non serve a nulla neppure che poi arrivino gli arresti e le condanne anche pesanti degli assassini: “Nessuna pena ai colpevoli ti cambia qualcosa, perchè i tuoi problemi sono di altra natura. E tutto quello che hai dentro di nero passa a chi ti sta vicino”. E’ davvero adorabile, Agnese, ma sicuramente è capace di immediati legittimi irrigidimenti e non si fatica a crederle quando dice di avere detto di no ai primi inviti a far parte di un gruppo che padre Bertagna stava costruendo mettendo insieme appunto “vittime e carnefici”. Temeva guai, temeva di offendere la sua famiglia: cambiò qualcosa quando di Bonisoli seppe che “sprecava” i pochi e preziosi permessi che allora aveva da detenuto per andare ai colloqui con gli insegnanti del figlio. “Quando andavo ai colloqui io – aggiunge Agnese sorridendo – di papà se ne vedevano sempre pochissimi. E allora mi colpì che proprio quello che ai miei occhi era un mostro si sentisse ora di utilizzare il poco tempo della sua libertà preoccupandosi dell’educazione del figlio”. “Allora – mi dissi – forse non sono dei mostri”.

Poche parole, quasi sottintese, bastano a farci capire quanti imbarazzi e diffidenze vi furono comunque ai primi incontri. Ma anche Agnese, come tutti, preferisce saltare quasi subito all’oggi: alla sorpresa nel vedere che “dovunque andiamo troviamo sale piene e ascolto attento”.

Ma le storie drammatiche sono appena all’inizio. E quella lacerante che racconta Giorgio Bazzèga mi fa riflettere anche su un’altra ingiustizia, che divide la geografia e la “gerarchia” delle stesse vittime. Perchè sicuramente in tanti ricordiamo il nome e la tragedia di Moro, forse in tanti che abbiamo vissuto quegli anni ricordiamo il nome del brigatista Walter Alasia al quale venne poi dedicata una “colonna” delle BR. E invece sappiamo poco o nulla del maresciallo Sergio Bazzega che da Alasia fu ucciso, insieme al vicequestore Vittorio Padovani.

E pochissimi sanno che il maresciallo Bazzega, nel faccia a faccia con il terrorista che si erano recati ad arrestare e che aveva sparato a Padovani, avrebbe poi potuto sparargli a sua volta con il suo mitra e avrebbe probabilmente ucciso Alasia prima che questi colpisse a morte anche lui. Ma fra il maresciallo e il giovane terrorista, nella traiettoria della raffica del suo mitra, si sarebbero trovati anche i genitori di Alasia: e questo fu sicuramente l’attimo che a Bazzega costò la vita. Un attimo che sbaglieremmo a chiamare semplicemente indecisione, perchè anche le scelte d’istinto alla fine nascono dalla umanità delle persone. E Bazzega fu frenato da questa, morendo davvero come un eroe.

Ma a un bambino di due anni e mezzo come era Giorgio non potevano servire eroi: serviva un papà in carne ed ossa. E Giorgio non ebbe nè lui nè un bersaglio per la sua rabbia, perchè Alasia fu subito dopo ucciso a sua volta dai poliziotti appostati fuori dall’abitazione. Allora, per il bambino poi diventato adolescente, iniziò una storia di vuoti, di sbandamenti, di soluzioni inutili come la droga, lo sballo.  Giorgio capiva che “avvelenavo me stesso e le persone intorno” e provò poi a disintossicarsi sposando una nuova dipendenza: l’odio, che non potendo colpire l’assassino del padre rivolse contro il primo capo delle BR, Renato Curcio, quando seppe che era stato rimesso in libertà.

“Decisi che dovevo ucciderlo” racconta. E con quel suo fare sorridente e ancora di ragazzo la frase sembra rimbombare ancora più forte. Poi anche lui fu avvicinato da chi cercava di aiutare i familiari delle tante vittime e lì conobbe Manlio Milani, il presidente dei Familiari della strage di Piazza della Loggia a Brescia, che “mi accese la luce”. Cioè lo fece ragionare e con poche profonde parole gli fece capire l’assurdità di ciò che sentiva dentro. Anche se poi, curiosamente, il destino portò nel paese di Giorgio proprio Curcio. E Bazzega si fece largo fra la gente per arrivare faccia a faccia con Curcio, per dirgli chi era, per chiedergli se si ricordava di suo padre e di Alasia. “Lo vidi arretrare, impaurito…me ne andai col mio cane e poi scoppiai a piangere. Ma forse è proprio in quel giorno che mi sono sentito finalmente guarito”.

E c’è un’appendice tenera che dice tanto di Giorgio: “Io sono uno che si affeziona alla gente. ma quando vidi che dopo alcuni incontri mi stavo affezionando agli ex terroristi come Adriana e Franco mi sentii in colpa verso mio padre, mi sembrava di tradirlo. Allora lo dissi a mia madre e lei mi rispose: finalmente inizi a ragionare come tuo padre!”.

Ce n’è ancora un’altra di storie simili. C’è Giovanni Ricci: una bella faccia di quella romanità che (un po’ come la nostra parmigianità) ti fa sentire subito in confidenza e ti fa venire voglia di una chiacchierata a tavola in amicizia, carbonara e abbacchio o torta fritta e salumi e sicuramente parole serene e sorrisi. Lo dice lui stesso che il sorriso è davvero la sua condizione di oggi, ci scherza anche: “Faccio subito lo spoiler della  mia storia e vi dico come è finita: io oggi sto bene”.

Eppure anche la sua storia parte da una scena drammatica. Sul tavolo di casa, in quel 16 marzo 1978 in cui dopo le notizie da via Fani si susseguono le visite e le parole di condoglianze a voce bassa, qualcuno nel pomeriggio ha lasciato l’edizione straordinaria di Repubblica. E il papà di Giovanni, che non è tornato a casa e di cui tutti parlavano fra i singhiozzi, è lì: a pagina 2, in una foto che vede a terra senza lenzuolo l’appuntato Domenico Ricci, crivellato dai colpi del commando BR insieme a tutta la scorta di Moro. Nessuno di noi può anche solo intuire l’effetto di quella scena per un bambino di 11 anni: “Erano i miei mostri neri, quelli di cui i bambini più piccoli hanno paura quando si spegne la luce e si resta al buio. E allora non c’erano, in queste situazioni, gli psicologi”. Sembra una condanna all’ergastolo: “La vittima per onorare il proprio caro deve morire ogni giorno”.

Si creano “gabbie nelle quali la vittima deve solo piangere”, così come Agnese Moro aveva detto di essersi sentita “intrappolata in una goccia d’ambra”. Giovanni per lunghi anni soffre e non trova sbocchi, ma un giorno ha lui un pensiero da statista (quelli che non pensano alle elezioni ma al futuro delle giovani generazioni): “Mi sono chiesto: ma se io incontro un figlio di questi terroristi, dovremo odiarci anche noi?”. E’ scattata lì, guardando al futuro, la scintilla che poi l’ha portato in questo percorso che tecnicamente si chiama Giustizia riparativa.

Ma anche il buon Giovanni si irrigidisce quando qualcuno gli chiede: ma tu vai a cena con chi ha ucciso tuo padre? “Non è che dalla sera alla mattina ci siamo detti: andiamo a mangiare una pizza con Adriana o con Franco. Abbiamo cercato le risposte che la società non ci dava e non è stato facile. Abbiamo avuto il coraggio di guardarci reciprocamente negli occhi e ho capito che anche da quella parte c’era stata e c’era tanta sofferenza”. E’ un percorso che, come già diceva Agnese Moro, non ha un itinerario prestabilito:  “Chiediamo a voi – dice Giovanni agli universitari – aiuto per andare avanti. E perchè queste cose non si ripetano più”.

Adesso prendete fiato un momento, perchè questa storia è davvero già lunga, intensa e spesso cupa pur nella ammirevole forza che la sostiene. Ma c’è ancora un racconto, che ho lasciato per ultimo perchè ci porta ancora più indietro (1974), perchè appartiene a una città che conosco e che mi è cara (Brescia) e perchè è una lezione altissima che un uomo raro a incontrarsi porta avanti con mite caparbietà da decenni.

Manlio Milani era anche lui in quella Piazza della Loggia. Non poteva non esserci, lui impegnato nel PCI e nella CGIL, nei giorni in cui la città lombarda sembrava al centro dei traffici bombaroli neofascisti. Pochi giorni prima, il 21enne bresciano Silvio Ferrari che studiava all’Università di Parma morì per l’esplosione di un ordigno che stava trasportando sulla sua Vespa. E Brescia il 28 maggio era in Piazza per dire no a quella montante onda di neofascismo e di bombe.

C’è un audio che ha bloccato per sempre il momento dello scoppio durante il comizio ufficiale.  Ma solo per noi è un audio: per Manlio fu la visione di un inferno negli occhi e nel cuore. Furono gli ultimi momenti accanto alla sua Livia, una delle otto vittime della bomba. Poi la corsa vana in ospedale e poche ore dopo la necessità di tornare in quella Piazza, anche se la lacerazione non aveva lasciato nulla di cui riappropriarsi. Lì Milani trovò l’affetto di tanti abbracci, ma si sentì anche dire dai compagni di partito e di sindacati: “Ricordati che siamo stati colpiti tutti noi”. A sentirla raccontare sembra quasi una frase infelice e ingenerosa, per chi è stato appena colpito mortalmente negli affetti, ma non così per Manlio che ne fece in qualche modo una rotta.

“Tu hai le ombre tutto il giorno – spiega – ma capisci anche che non sei proprietario esclusivo della sofferenza”. Da un viaggio in Giappone per cercare inutilmente di convincere Delfo Zorzi a farsi processare in Italia alla recente ennesima richiesta all’ennesimo premier (Conte) di aprire finalmente gli archivi dello Stato e delle verità celate, la sua testimonianza è stata intensa e incessante. Ma è soprattutto la luminosità delle sue parole a colpire: come non sorprendersi con ammirazione di chi avrebbe tutte le ragioni di scagliarsi con odio verso chi attuò quella crudeltà e invece si è guardato dentro  e continua a chiedersi “Ma io che cosa ho fatto perchè non si arrivasse a quella violenza?”. Potrebbe urlare contro chi ha depistato per coprire le verità su quel tragico 1974, come per Piazza Fontana e per altri attentati, e invece sussurra pacatamente e con bresciana concretezza: “Dobbiamo provare a ricostruire, che non significa nè iniziare a perdonarsi nè a dimenticare”. Con una certezza che dura da allora: “No alla violenza, che è separazione, rottura”. E a me piace pensare che questa sua decennale testimonianza abbia dato voce anche a tante mute disperazioni: come quella di Enzo Cavalli, padre di Susanna uccisa 10 anni dopo Piazza Loggia da un’altra bomba se possibile ancor più vigliacca, perchè sul treno che riportava a un Natale felice Susanna e il suo fidanzatino Piefrancesco. “Tutti i giorni – mi disse una volta Enzo nella sua casa di Gaiano -, ogni singolo giorno mi alzo e vorrei prendermi la testa e spaccarmela contro il muro”.

Fra pomeriggio e sera sono ormai quasi sei ore di parole che ci hanno stupiti e frastornati, ma anche illuminati. Lo vedo negli occhi del pubblico della sera come in quelli degli studenti del pomeriggio e anche negli sguardi dei colleghi, Paolo Grossi e Chiara Cacciani: di cronache ne abbiamo fatte tutti ormai tante, ma questa giornata è davvero diversa, speciale, con una lezione che dovrebbe raggiungere tutta la città e non solo (quanta forza avrebbe una serata televisiva sul servizio pubblico, anche se occorrerebbe fissarne bene bene i paletti per non rovinare tutto).

Mentre un applauso grato e sincero saluta gli ospiti, ripongo in carpetta quella foto di una bambina in spiaggia con il suo importante e lì quasi impacciato papà. E di quel politico mi torna in mente una delle intuizioni più celebri: l’immagine delle “convergenze parallele”, la cui paternità è in realtà da dividere con Eugenio Scalfari. Se ne parlò per dare un simbolo alla strategia politica del “compromesso storico” fra DC e PCI, e all’estero ci fu chi ironizzò per questo sulla politica italiana certamente fantasiosa ma anche poco concreta e attendibile. E invece oggi eccole qui davvero le convergenze parallele: percorsi estranei ed opposti che si sono incrociati e ora camminano insieme, pur senza mai confondersi. Violenza e dolore dato, violenza e dolore subìto si confrontano per dare finalmente una consolazione a chi fu protagonista di quelle tragedie per scelta o per destino. Ma anche per invitare tutti noi a rileggere quelle grandissime tragedie e a costruire nuovi sogni. Disarmati.

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La foto in spiaggia di Aldo Moro con la figlia Agnese è sul sito http://odisseamoro.blogspot.com

 

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