La prima “Didattica a distanza” fu telefonica, improvvisata e fuori dal programma del corso. Una domanda che non poteva ammettere troppo tempo per la risposta nè le mie consuete vie di mezzo: “Prof, ho il volo per la Sicilia già prenotato. Che faccio: vado o resto a Parma?”. Mancavano poche ore alla quasi certa zona rossa: sufficienti per prendere il primo treno, prima che si scatenasse la ressa serale che tutti ricordano soprattutto alla stazione di Milano, per poi appunto proseguire col volo aereo già fissato. Il mio consiglio fu

di partire.

Oggi credo che ridarei la stessa risposta, anche se quasi me ne pentii quando poi lessi il racconto della “accoglienza” ricevuta al ritorno e ancor più quando lessi gli insulti (i primi che vedevo nella lunga lista che avrebbe accompagnato la pandemia sui social) della mia Parma a quel racconto (vedi a fine articolo per i link a quella storia). Ma nello stesso momento capii che quel giorno, fra le mille cose che stavano per ribaltare le nostre vite, cambiava anche il nostro lavoro di docenti.

Non la faccio lunga sul film di questi mesi, fra attività online o tutt’al più in “modalità mista”: le tesi di laurea senza il loro calore e la loro allegria (allegria spesso coronamento di lavori serissimi e di ottimo livello), esami a distanza, tirocini di ripiego, ecc. Nel frattempo, oltre ai colloqui “istituzionali” cercavo – ogni volta che il feed dei social mi proponeva i loro post, le foto e le storie su Instagram o Facebook ecc. – di misurare negli studenti gli stati d’animo, lo scoramento e la resistenza. Sono stati e sono mesi rubati: mesi che hanno un peso specifico tutto particolare, specie per chi nell’università e nel cambio di città investe tanto di sè anche spiritualmente, per valutarsi e per valutare se lontano da casa si possono intravedere progetti che in certe terre, splendide ma aride, sono avvolti da nebbie ancora più spesse di quella padana con cui accogliamo i fuorisede.

Il piatto piange, inevitabilmente. Al di là dei nostri limiti e dei nostri sforzi, quello che si riesce a fornire è diverso dal solito. Eppure, paradossalmente, proprio il protrarsi e rinnovarsi di limitazioni e chiusure (quando speravamo invece che la primavera segnasse il ritorno alla normalità) mi fa pensare una cosa nuova. Sì: qualcosa mancherà ancora all’appello, in ciò che si sarebbe potuto imparare sul giornalismo o sull’editoria. E mancherà all’appello anche quel clima di comunità che non è solo allegria o aperitivi ma anche comunità di Sapere e di crescita collettiva.

Però, e questa è forse la sfida e insieme il patto che dovremo affrontare, la DAD che più conta, ora, è quella su come affrontare questa primavera che si profila ancora in salita, speriamo solo all’inizio. Dobbiamo riposizionarci: cerchiamo nuovi equilibri mentre ci investono nuove paure. Una sfida anche morale, kantiana: essere riferimento (come del resto è compito del giornalismo migliore) e appunto modello, anche etico, nel caos che si è creato e nel quale tanti soffiano, in buona o in mala fede. Essere diversi, tanto per fare un esempio del weekend, dalla insensata darsena dei Navigli milanesi o di certe lamentele di settori: lamentele fondate ma che vedono solo uno spicchio del problema.

Qualcosa, e non sempre per “colpa”, continuerà a mancare nei contenuti accademici: a voi ed anche a noi. Però, se insieme riusciamo a scollinare anche questa volta, mantenendoci fedeli agli ideali che abbiamo, quando ne usciremo (e con i vaccini possiamo davvero pensare che ne usciremo) scopriremo e scoprirete una straordinaria e imprevedibile forza interiore, che neppure i due più intensi e completi anni “normali” vi avrebbero dato.

Non mollate, non molliamo !

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