Ho conosciuto una scrittrice di nome Tea. Oggi, giocando sulle parole, c’è una Tea room, che periodicamente ci invita sapendo offrire miscele diverse ma sempre capaci di scaldare il cuore. Non sono passati tanti mesi da quando

il libro Gioia mia ci aveva trasportati nella sua Sicilia di favola e di ideali, soprattutto al femminile ma non solo, perchè il mondo lo dobbiamo cambiare tutti insieme donne e uomini. E non sono passati tanti mesi neppure da quando con delicata efficacia il suo Bellissima ci ha introdotti in quel mondo fragile, complicato, contraddittorio eppure meraviglioso che sono i ragazzi di oggi.

Ed ora, ecco che la ritrovo (già con grande successo, visto che è approdata alle classifiche degli inserti letterari nazionali) a raccontarci tutt’altra storia, con un nuovo registro ma con quella stessa presenza discreta e insieme forte di scrittrice e di persona. Già, perchè insieme al bello scrivere occorreva prima di tutto una bella persona per ascoltare, afferrare e restituirci una delle storie più struggenti e insieme più incoraggianti legate alla tragedia degli ebrei, anche in Italia, sotto l’orrore nazifascista.

La storia è quella di Emanuele Di Porto. Oggi ha quasi 92 anni, e a 80 anni di distanza è fra gli ultimi testimoni diretti dei drammi dei rastrellamenti nel ghetto di Roma, che lo colsero dodicenne e strapparono a lui e alla sua famiglia l’affetto più caro: la madre.

Tea – non mi fa velo l’amicizia nel dirlo – ha avuto innanzitutto una intuizione dal cuore, che per deformazione professionale io definirei anche “giornalistica”: guardando un documentario, ha infatti sentito che “quella” storia accennata poteva e doveva diventare racconto. Che poi, una volta contattato e incontrato Emanuele, questi si sia sùbito convinto ad affidare proprio alla scrittrice di Siracusa la sua testimonianza, è l’ultima cosa che mi potrebbe sorprendere dopo avere visto tante volte il garbo e la passione con cui Tea sa entrare in sintonia con le persone di ogni età.

Ancora da perfetta cronista, ma con insieme l’ampiezza d’orizzonte della scrittrice di razza, è l’incipit del libro, che subito ci porta nel dramma di un rastrellamento notturno. E nel raccontare, l’avvìo ci dipinge già quello spaccato familiare che di lì a poco si spezzerà nel modo più crudele.

Poi, grazie all’ultimo gesto di amore di quella donna, la storia diventa soprattutto quella di Emanuele, che oltre all’apprensione inconsolabile per non poter conoscere la sorte della madre deve contemporaneamente mettere in salvo sè stesso, anche perchè dovrà ora essere di aiuto a fratelli e sorelle e a un padre a sua volta sconvolto e alienato dalla mancanza della compagna di vita. Attraverso gli occhi di quel dodicenne, e la memoria del novantunenne di oggi, viviamo tutta l’assurdità e l’orrore di quella pagina e della guerra in genere, con in più l’assurdità di vedere ogni giorno che ancor oggi quella lezione non l’abbiamo imparata…

Qui la storia di Emanuele diventa però anche, miracolosamente e in mezzo a mille difficoltà e rischi, la storia dell’Umanità che non si è ancora persa, che non si perde mai del tutto neppure nei momenti più bui (e ancora una volta penso al Guareschi del Diario del lager e, di fronte a questa storia, anche del suo Decimo clandestino). Una umanità che, quasi come in una favola, prende vita su un tram, che si trasforma in scudo, si fa solidarietà e si fa perfino capanna, dove la presenza di un gatto fa in un certo senso le veci di bue e asinello.

Lo sappiamo anche senza svelare nulla del libro: le storie di quei giorni furono raramente a lieto fine. Ma il regalo più importante di Emanuele e di Tea è che le loro pagine ci danno coraggio affinchè il “lieto fine” lo si sappia creare noi oggi, appunto allontanando dal nostro tram tutto ciò che è cattiveria, sopraffazione, violenza cieca. Per far posto alla vita: quella vita che i libri di Tea Ranno fanno cantare anche quando si parte dal buio.

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