Giro la chiave nel silenzio e nel semibuio, dopo avere attraversato il corridoio vuoto delle locandine appese a ricordare i seminari e i convegni dei mesi e degli anni scorsi. Chiuse le porte degli studi, entro il tempo di prelevare alcuni documenti e l’occhio mi cade sul calendario appeso alla parete: FEBBRAIO 2020.

E’ come se solo adesso mi rendessi conto.

Parlo, letteralmente, del conto dei mesi: sei-sette, il tempo stravolto e rubato a tutti noi. Perché fuori, in strada o sul bus, la fine di agosto ha portato ancora più chiara l’impressione di un ritorno, se non alla normalità a qualcosa che possa assomigliarle, seppur dietro lo schermo delle maledette-benedette mascherine.

Ma è dentro che ci si rende davvero conto, nel silenzio e nel buio. E’ come se una gigantesca e metaforica ragnatela avesse avvolto e cristallizzato tutto: le aule, le scale, le macchinette del caffè, gli uffici (dove pure è iniziato un graduale ritorno).

E poi manca il casino gioioso di chi è lì a studiare ma anche a vivere la stagione più bella, magari condita da un allontanamento da casa che sa di speranza e anche di emancipazione. Senza però (e lo abbiamo misurato perfettamente proprio in questi mesi) dimenticare o peggio rinnegare le radici. E’ talmente angosciante, questo silenzio, che lo baratterei perfino con lo stucchevole e a me insopportabile coro “Dottore, dottore del…” che mette insieme la festa della laurea appena conseguita e l’incertezza sul dopo.

Capisco in quel silenzio che il vero sbaglio è dire a sé stessi che ne siamo fuori. No: non lo siamo e forse non ne saremo ancora per tanto tempo. Ci chiedevamo se saremmo diventati migliori o peggiori: non so (ma ho un sospetto…), però è certo che siamo cambiati. Tutti.

Due anni fa ero uscito da un ospedale con la convinzione che quel problema medico, serio ma apparentemente superato, mi avesse definitivamente forgiato, anche perché a 60 anni non si può non avere una visione docile e ormai completa di come affrontare gli ultimi chilometri. E in effetti, da allora, ogni cosa anche banale mi era parsa straordinaria al confronto, e l’entusiasmo – spero anche dalla cattedra – traboccava quasi come nei 20 anni degli inizi da giornalista. Adesso cerco quel me stesso ogni volta che sono a colloquio con qualche studente, che dovrei aiutare a vincere lo spiazzamento lasciato da questi mesi: a volte mi sembra di riuscirci, a volte mi chiedo se non stiamo recitando un film inutile, che un ritorno del contagio potrebbe definitivamente frantumare.

Ma ovviamente non può essere così: siamo stati sballottati da un mare terrorizzante, e se siamo sbarcati lo siamo come naufraghi. Però siamo vivi, diversamente anche da tanti che non hanno avuto la stessa fortuna. Due anni dopo l’ospedale ho l’impressione di avere di nuovo smarrito lo spartito: chissà cosa dirò a ragazze e ragazzi, quando ci rivedremo. Poi guardo il loro diario da marzo a oggi, guardo su Instagram la bellezza dei loro mari e dei loro tramonti in montagna, le pizze, la musica… E allora faccio finta di non vedere quel gigantesco punto interrogativo alla fine dell’hashtag, e come nel marzo orribile dei 25 morti parmigiani al giorno lo dico ancora, a loro e a me, col punto esclamativo: #insiemecelafaremo! 😊

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