Ho bisogno di raccontarvelo subito, perché ho appena assistito a una delle iniziative più intense, intelligenti e toccanti di questi anni parmigiani. Il merito

va a Gianluca Foglia: “Fogliazza”, di cui conosco da tempo le capacità di disegnatore come conosco la penna corrosiva delle sue didascalie, ma che questa volta si è superato.

Fogliazza racconta di Stefano Vezzani, racconta di un giovane che non ha potuto inseguire i suoi sogni perché a 17 anni è stato aggredito e ucciso da altri ragazzi, ai bordi di un campo di calcio. La tragedia assurda che le cronache anche nazionali definirono “il delitto del Federale”, che era il nome del campo da calcio che ospitava la seguitissima Coppa dei Bar.

Fogliazza, nella sequenza dei suoi disegni, allarga il racconto e lo rende insieme storia e presente, e in qualche modo anche futuro, perché dopo un cenno ai Capannoni e alle bande di quartiere ci porta immediatamente nelle difficoltà che circondano i giovani, oggi come ieri. E oggi come ieri gli adulti si fanno schermo dell’etichetta ipocrita del “disagio giovanile”, per coprire lacune che sono soprattutto nei modelli che a quei giovani proponiamo.

C’è anche il richiamo a un magistrale articolo di Maurizio Chierici sul Corriere della sera. Ma Fogliazza, soprattutto, arriva alla mente e al cuore con riflessioni tanto centrate quanto prive di retorica. Fino a lasciarci l’impegno a non far cadere nell’oblio una storia che ha ancora molto da insegnarci, come l’orchidea selvatica che ogni anno ricresce nel parco che a Stefano Vezzani è dedicato e che sembra far rinascere l’orchidea che ogni anno lui regalava alla madre.

E io dico alle scuole che ancora non l’hanno ospitato che quella di Fogliazza è una lezione straordinaria e capace di parlare ai ragazzi di oggi. (A lui invece dico che prima di chiudere la serie dei suoi racconti deve una volta filmare e poi pubblicare su web e social).

Fra il pubblico, così come qualche mese fa alla proiezione del documentario realizzato da un gruppo di giovani, c’è il fratello di Stefano. E poi i 40 anni che ci hanno imbiancato e tolto capelli non ci impediscono di riconoscerci immediatamente negli sguardi con gli amici di Stefano: i ragazzi sgomenti di fronte alla tragedia dell’amico ucciso che intervistai in quei giorni su un prato del Montanara. Hanno gli occhi lucidi, e ci abbracciamo come se tutto quel tempo non fosse passato: provo a dire che vederli piangere dopo 40 anni è triste ma anche bello, per loro, per Stefano e per quell’impegno a non far dimenticare la storia di un ragazzo al quale fu impedito di vivere la sua vita e i suoi sogni. No, ragazzi: non facciamo dimenticare quella tragedia a questa città distratta e un po’ inaridita. E’ per voi, e per Stefano, che sentivo il bisogno di raccontare subito questo incontro prezioso.

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