La notizia era annidata in un piccolo riquadro pubblicitario della Gazzetta. Non una vera notizia, in realtà: eppure in quelle poche righe c’era un pezzo di vita…

Il riquadro parlava di un’asta pubblica per alcuni immobili di proprietà dell’azienda ospedaliero universitaria di Parma. Guardo sempre con attenzione questi annunci in carattere piccolo, perchè a volte celano vere notizie, legate magari a edifici importanti per storia o per funzioni. Qui no: qui si parla di un semplice edificio nel quartiere Montebello, in via Achille Pellizzari 6 (una strada dedicata a un educatore che fu uno dei più anziani fra i partigiani).

Ma quella casa ha una storia, prima felice e poi travagliatissima, che conosco bene. E’ la storia di Carlo e della sua famiglia: due genitori che per anni hanno potuto specchiarsi orgogliosi in quel bambino e poi ragazzo d’oro. Bravo, bravissimo a scuola. E buono. E poi bravo sul campo da calcio; nella Montebello, poi nelle partite coi compagni del liceo, poi nei campionati dilettanti. Poi…

…Poi il buio. La mente che d’improvviso si annebbia, la memoria prodigiosa che zoppica o che percepisci zoppicare facendoti perdere tutta la tua sicurezza. I dubbi che diventano incubi e aprono un mondo parallelo, nel quale i passanti sono “servizi segreti” e il mondo che sembrava aprirsi ai progetti di lavoro e di vita (si era intanto iscritto a Giurisprudenza, dopo un attacco di panico all’esame di Maturità) si mescola con una realtà contigua e fantasiosa, a volte foriera di rischi per sè e per gli altri. Compresi i genitori, amatissimi eppure primo bersaglio di una aggressività in lui inopinata e quindi ancor più amara da accettare.

Quanto faceva male ascoltare un padre (anche lui persona mitissima e ammirevole) raccontare di quante volte si era dovuto mordere la lingua per non ribattere a un figlio improvvisamente ostile, con la paura che potesse – per colpa di quel maledetto demone che lo aveva invaso – anche passare dalla violenza verbale alla violenza dei gesti. E quanto faceva male sentirsi dire al telefono: “Carlo non c’è. Stanotte ha dato in escandescenza e abbiamo dovuto chiamare le forze dell’ordine”: era la premessa di un TSO, il trattamento sanitario obbligatorio che significava ricovero al Diagnosi e cura, il reparto delle crisi acute nel dopo-manicomi.

Superata la fase acuta, iniziava il percorso di “alleggerimento” nelle strutture intermedie, che fossero Monticelli, il Santi, i gruppi appartamento (esperienza per lui poco proficua)… Lì ho misurato la professionalità e l’abnegazione di chi lavora in uno dei settori più infidi della Medicina. Lì ho misurato anche l’umanità di tanti operatori, parallela alla bontà che Carlo – passata la crisi – ritrovava come sua caratteristica di sempre e lo faceva apprezzare sia dal personale che dagli altri ospiti (quanta insospettabile dolcezza si nasconde fra i tarli che oscurano le menti!). E poi arrivavano le dimissioni, con il ritorno a casa fra gioia e paure, fino magari alla crisi successiva, alla successiva chiamata al 118 o al 113, al successivo TSO.

Così nella casa di via Pellizzari si sono consumati i giorni e i sogni di quei due genitori. Con cui condividevo, quando mi ci recavo e trovavo Carlo in giornata no, quel sottofondo di paura che teneva in allerta di fronte a una frase o a una reazione, a volte una minaccia che non sapevi fino a che punto scherzosa. Ma se io poi uscivo, e una volta salutato l’amico tornavo alla mia vita, quella famiglia restava sola a fare i conti con quel dramma: e a volte restava l’impressione che le pur tante e apprezzabili strutture del territorio non bastassero ad alleviare dalle spalle dei genitori quel peso terribile.

L’evoluzione dei farmaci, o forse semplicemente un destino beffardo, ha fatto sì che Carlo ritrovasse una sua quiete interiore quando i suoi genitori, ormai sfiancati dalla sofferenza interiore, se ne erano già andati e la casa di via Pellizzari era rimasta tutta per lui. Però anche qui è giusto ricordare che i servizi non hanno mai lasciato solo quel ragazzo diventato ormai uomo senza avere avuto le soddisfazioni che le sue qualità gli avrebbero certamente dato sul lavoro, ma allo stesso tempo senza che la malattia gli avesse tolto quella lucida intelligenza con cui sapeva affrontare qualsiasi argomento. Compresa, e a volte era una esperienza straniante e quasi surreale, la sua stessa malattia che descriveva con grande sincerità: scherzando, a volte convenivamo che una laurea in Psichiatria ad honorem se la sarebbe meritata.

Non so a chi finirà quella casa, in una delle zone più tranquille della città. Ma mi piace pensare che Carlo e i suoi genitori, pur passando attraverso mille sofferenze, vi abbiano lasciato un’eredità di bontà e di pazienza che ora possa accompagnare chi quella casa farà rivivere, dopo che proprio Carlo aveva voluto destinare alla Sanità pubblica alla quale suo malgrado era rimasto legato per quasi 40 anni. Quella che per me sarà sempre la casa di un amico buono e sfortunato, e indimenticabile. La casa di Carlo.

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