“Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo… Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro”. Poteva sembrare l’accalorato e affettuoso omaggio a un amico, ma invece
le parola dell’orazione funebre di Alberto Moravia per Pier Paolo Pasolini, ucciso in questo 2 novembre, 48 anni fa.
Quasi mezzo secolo: un tempo sufficiente per distanziare, annacquare, sfumare l’opera di tanti scrittori e poeti (e Pasolini fu anche regista, giornalista, saggista, polemista…). Poteva essere così anche per chi con tanta tenacia si è abbarbicato al suo tempo, come certamente Pasolini ha fatto (“Gettare il corpo nella lotta” è una frase che lo identifica ed è anche il titolo di uno dei libri che di recente lo hanno ricordato).
E invece Pasolini ci parla ancora tantissimo. Ci parlano i suoi Scritti corsari, che fino al giorno della morte descrissero in modo irripetibile ed efficacissimo i cambiamenti dell’Italia post boom economico. L’Italia dell’omologazione, da lui avvertita e temuta al punto da spostare di volta in volta il suo sguardo su ogni possibile isola incontaminata (il Friuli contadino, poi le borgate romane, poi il Sud, poi altre zone del mondo dall’India a una lettura imprevedibile degli Usa…). E nelle sue opere, qualunque sia il mezzo espressivo, c’è sempre la ricerca della Poesia. Proprio come disse Moravia, con parole che forse comprendiamo meglio oggi che quel giorno di 48 anni fa.
C’è ancora tanto da studiare e scoprire. Nel prossimo anno, ad esempio, saranno 60 anni dal Vangelo secondo Matteo: l’imprevedibile esito di un film sulla vita di Cristo diretto da un ateo dichiarato e marxista. E in questo film, come nel resto dell’opera pasoliniana, c’è soprattutto un grandissimo insegnamento: studiare, per poi poter analizzare o reinterpretare. Ma dopo avere studiato, e senza secondi fini che non siano ideali.
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