Ho richiuso il libro, ammutolito. E ammirato. E grato.

Storia di un dolore che non si può dire: è il sottotitolo di un racconto che dovrebbe

circolare il più possibile fra le ragazze, le famiglie, i medici… Un libro che parlerà a tante donne ma che può insegnare a tanti uomini, perché “Avevo un fuoco dentro”, di Tea Ranno (ed. Mondadori), parla di endometriosi, e di molto altro che ci riguarda: tutte e tutti.

Conosco, leggo, ammiro da anni Tea Ranno. Soltanto poche settimane fa ero a parlare con lei a Parma, dove aveva incantato come sempre le ragazze e i ragazzi del Liceo Sanvitale con l’incredibile storia di Emanuele, bambino ebreo che sfuggì al rastrellamento nazifascista rifugiandosi per alcuni giorni in “Un tram per la vita”, che grazie a Tea è diventato libro di tragedia e di solidarietà: il peggio e il meglio degli uomini.

Prima ancora Tea ha saputo raccogliere e ricreare storie della sua Sicilia trasformandole in romanzi avvincenti e fecondi di riflessioni sulla violenza uomo-donna. Poi da quei racconti ha saputo fare favola, inventandosi Agata, tabaccaia di coraggio e di Amurusanza, e plasmando con la musica delle sue parole un altro doppio apologo di femmine forti e di uomini al loro fianco contro la prepotenza di altri. E a Parma mi aveva detto del lavoro che stava nascendo sulla sua esperienza e su questa malattia subdola e spesso poco capìta o sottovalutata da chi circonda chi ne soffre, a volte compresi i medici.

Sapevo. Ma non immaginavo che tutto quello che avevo fin qui letto di Tea potesse avere convissuto con quel “cane che morde dentro”, che la sua gioia di scrivere (e per noi di leggerla) avesse alle spalle una storia così lunga di sofferenze, dubbi, incomprensioni… Fin quasi a sfiorare la morte, letteralmente.

Leggetele, leggetele al più presto quelle 269 pagine, perché contengono una importantissima testimonianza di vita, di caparbietà, e comunque anche di gioia, perché una delle cose più belle del libro (e questa però non mi ha stupito, per come conosco Tea Ranno) è che neppure nei momenti bui è mai mancata all’autrice – stavolta anche protagonista, suo malgrado – la forza o la voglia di guardare avanti, di progettare, perfino di sorridere e sognare. E se tante volte le sue storie mi hanno fatto amaramente riflettere sull’ottusità e sugli egoismi di noi uomini, questa volta si può dire che sullo sfondo – ma sempre presente – c’è anche un uomo di grande spessore, che per i casi della vita ha lo stesso nome di battesimo del bambino del tram: Emanuele, che per coincidenza è appunto lo stesso nome del marito di Tea.

E’ curioso: mentre scrivo questa recensione, ad ogni riga mi pare di vedersi allontanare le pagine della sofferenza e vedo emergere la forza della vita di Tea, di Emanuele, delle loro figlie nate dopo mille dubbi sulla possibilità di avere figli (e chi leggerà vedrà, magari traendone forza per la propria storia, quanta caparbietà e fiducia è occorsa anche per questo lieto fine, doppio perché gemellare). Ma non voglio dimenticare di riferirvi anche di quelle tante pagine buie, che Tea è ancora una volta bravissima a mettere insieme in un racconto a flash back che consente ancor meglio di capire gli intrecci che può avere una vita. E leggendo mi sono chiesto più volte quanto le debba essere costato questo scrivere, a lei che ama tanto scrivere ma che stavolta lo ha fatto sulla sua stessa carne.

Ma Tea ha fatto ancora di più. Ha inserito fra le pieghe di questo racconto anche altre storie nella storia: ha descritto tante insensibilità o cattiverie, e ha condiviso con noi lettori quanto impegni e quanti sacrifici le è costata la passione di scrivere, prima di essere trasformata in meravigliosa realtà, per sé e per noi che ci gustiamo la sua prosa.

Da uomo, non sono neppure sicuro di aver potuto capire tutto di un racconto che è inevitabilmente molto femminile. Ma anche questo è un regalo importante, nel nostro rapportarci uomo-donna: sapere di non riuscire sempre a capire, ma sapere anche quanto possa essere importante sorreggersi a vicenda, come l’autrice ha potuto fare con Emanuele.

E allora, torno a dire a Tea ciò che poche settimane fa (pur senza ancora conoscere l’importanza e lo spessore di queste pagine) avevo risposto ai suoi dubbi su questo auto-racconto. Eravamo nel silenzio della nostra Cattedrale, fra la quieta vertigine del Correggio e l’emozionante pietra dell’Antelami: qui Tea mi ha anticipato lo spirito del suo libro e qualche suo dubbio, e qui – ascoltandola – le ho detto che sicuramente aveva fatto benissimo a svuotarsi di quei ricordi e a condividerli con noi. Ora ho capito quanto le deve essere costato: oggi più che mai, più ancora che nelle sue deliziose favole femminili che presto potranno tornare, la ringrazio e l’ammiro per come ha saputo raccontarci quel doloroso fuoco di dentro e quel cane nella pancia che la “rosicava viva”. Ma soprattutto la ringrazio e l’ammiro per averne saputo trarre, per poi condividerla con noi, un’altra lezione di quella Vita che alla fine – comunque – mai potrebbe “non ridere e non cantare”. Tea, ti aspettiamo a Parma per parlarne e per abbracciarti.

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